In bella grafia. Sei secoli di manoscritti
Febbraio - marzo 2024
La biblioteca Manfrediana conserva un consistente numero di manoscritti, oltre 800, che coprono un arco temporale molto esteso e spaziano dai testi giuridici, alle opere di autori classici, ai corali, alle cronache, ai diari. Anche la materia scrittoria cambia dalla pergamena alla carta, così come la lingua varia dal latino all’italiano, all’inglese. Numerosi manoscritti sono impreziositi da splendide miniature e pregiate legature.
La biblioteca Manfrediana conserva un consistente numero di manoscritti, oltre 800, che coprono un arco temporale molto esteso e spaziano dai testi giuridici, alle opere di autori classici, ai corali, alle cronache, ai diari. Anche la materia scrittoria cambia dalla pergamena alla carta, così come la lingua varia dal latino all’italiano, all’inglese. Numerosi manoscritti sono impreziositi da splendide miniature e pregiate legature.
La mostra In bella grafia Sei secoli di manoscritti invita a scoprire un fondo fino ad ora poco esplorato, o perlomeno limitato ad alcuni manoscritti, sui quali si sono soffermati i ricercatori. Un recente intervento di riordino ha portato alla luce più di 300 manoscritti sino ad ora ignorati.
Per l’occasione sono stati esposti il manoscritto del XV secolo Sylloge inscriptionum latinarum veterum, una raccolta di iscrizioni latine alla quale contribuì anche il veronese Felice Feliciano (1433-1479 circa), grande figura di umanista italiano del XV secolo, soprattutto per quanto concerne lo studio dell’antiquaria e dell’epigrafia romana, e il De Somnio Scipionis Libellus – Eiusdem de natura deorum di Cicerone datato 5 novembre 1434
Del percorso espositivo ha fatto parte anche il codice più famoso conservato dalla Manfrediana, il Codex Bonadies, che prende il nome dalla città di Faenza, essendo noto anche come Codex Faenza: la più corposa (circa 50 composizioni) e antica raccolta (la sua stesura risale alla fine del 1300) di brani per strumenti a tastiera esistente al mondo.
Conclude la selezione una scoperta recentissima: un inedito dello scrittore e giornalista statunitense Edward Irenaeus Prime-Stevenson.
Negli ultimi mesi del 2023 la Biblioteca Comunale Manfrediana ha concluso un’ampia ricognizione del proprio materiale manoscritto, che ha portato all’individuazione di 820 unità contro le 529 precedentemente censite. Un intervento impegnativo, che ha permesso di ampliare notevolmente le conoscenze relative a questa Raccolta, che ci appare ora in tutta la sua ricchezza e rilevanza.
A termine del lavoro svolto si intende offrire alla Cittadinanza uno squarcio espositivo di questi innumerevoli “tesori” di eccezionale valore, ma solitamente poco conosciuti a causa delle difficoltà di lettura ed interpretative.
Secondo la terminologia tradizionale è definito manoscritto qualsiasi documento vergato a mano, a prescindere dal supporto materiale, in netta prevalenza pergamena o carta. Ciò implica una considerevole varietà tipologica, dal foglio singolo a codici di ampie dimensioni, a compilazioni in numerosi volumi, talvolta racchiusi in pregevoli legature. Essi si datano, pertanto, a partire dall’introduzione dei materiali scrittori e proseguono fino ad oggi, non essendo rari quelli composti ancora ai nostri tempi di sistematica dematerializzazione digitale. Per di più, se alcuni manoscritti sono del tutto privi di elementi ornamentali, altri presentano preziosi apparati decorativi, comprese vere e proprie opere d’arte, quali sono le lettere iniziali miniate.
Ogni manoscritto costituisce un unicum non soltanto sotto l’aspetto contenutistico, ma anche le innumerevoli informazioni “estrinseche” – quali inserti paratestuali, note, indicazioni di proprietà e segnature – che ne svelano il proprio trascorso storico, talvolta assai intricato e ricostruibile mediante complesse indagini di tipo paleografico, codicologico e filologico. Vicende affascinanti, che restituiscono spesso dati importanti e sconosciuti, fin quasi fare “parlare” lo stesso copista.
La Raccolta della Biblioteca Comunale Manfrediana, se si escludono alcuni frammenti in pergamena, non conserva manoscritti anteriori al XIV secolo. Essa può ritenersi integra, in quanto fortunatamente non fu interessata dalle distruzioni che nel 1944 causarono la perdita di decine di migliaia di volumi antichi. Per cui, è pervenuta così come iniziò a sedimentarsi fin dal momento della fondazione della Biblioteca nel 1797, arricchita da numerose e variegate acquisizioni nel corso del XIX e del XX secolo, compresa documentazione di natura archivistica.
Impossibile delineare una sintetica classificazione dei manoscritti sulla base del loro contenuto, riconducibile, non senza una certa forzatura, ad alcune aree omogenee.
Il nucleo più antico è quello dei frammenti medievali, in certi casi assegnabili al XII secolo. Si tratta di circa un migliaio di lacerti pergamenacei di codici liturgici, giuridici, letterari, scientifici, smembrati nel corso del XVI secolo per essere utilizzati come legature dei registri dell’Archivio Notarile Comunale e di volumi a stampa.
Seguono i manoscritti del XIV secolo e dell’età umanistica, in primo luogo il celeberrimo “Bonadies” (ms. 117), una delle prime raccolte di musica per tastiera, e la Sylloge inscriptionum latinarum veterum (ms. 7), tradizionalmente attribuita all’umanista veronese Felice Feliciano, entrambi di provenienza non faentina. Altri codici significativi, il Cicerone, il Lattanzio, il Dionisi Areopagita nella versione di Ambrogio Traversari ed il Giuseppe Flavio (mss. 30, 33, 40, 47) e le opere di Bartolo da Sassoferrato ed Angelo degli Ubaldi da Perugia (ms. 315, 317), provenienti dai conventi cittadini soppressi. Ancora all’area umanistica è riconducibile il manoscritto dei Ricordi del cavaliere gerosolomitano Sabba da Castiglione, la cui prima edizione a stampa risale al 1546. La Biblioteca faentina non conserva codici di accertata provenienza manfrediana, verosimilmente a causa delle vicissitudini che hanno smembrato la raccolta libraria di famiglia e disperso l’archivio dinastico. I materiali attualmente custoditi sono, infatti, di natura archivistica, fra cui l’unico registro conosciuto della Cancelleria di Galeotto Manfredi e diverse pergamene e missive, pervenute mediante donazioni ed acquisti.
Una particolare tipologia contraddistingue i manoscritti musicali, in primo luogo i codici liturgici per l’ufficiatura corale appartenuti alle corporazioni religiose soppresse e databili dal XV al XVII secolo. In senso lato, essi appartengono alla Raccolta Musicale, che riunisce il più importante insieme di partiture manoscritte ed a stampa di autori faentini e non, unitamente a volumi e libretti d’opera, fino ai nostri giorni.
Il nucleo numericamente più cospicuo è composto dalle cronache cittadine, intese nell’accezione più ampia del termine. Si parte da antiche copie del Tolosano, come quella di Casa Viarani del XVI secolo, per poi proseguire, solo per una piccola esemplificazione, con quelle del cosiddetto Ubertelli, Gregorio Zuccolo, Bernardino Azzurrini, Giulio Cesare Tonduzzi, Giovanni Antonio Benedetti, Alessandro Grazioli, Niccolò Tosetti, Giambattista Borsieri, Carlo Zanelli, Giovanni Battista Tondini, Paolo Monti, Luigi Querzola, Antonio Ruggeri, Saverio Tomba, Luigi Cavalli, Andrea Strocchi, Gian Marcello Valgimigli, Domenico Fossa, Marino Figna. Di eguale valore documentario sono le raccolte epigrafiche ed araldico-genealogiche, fra cui i tre blasonari conosciuti con i cognomi dei compilatori Calzi [Giuseppe], Baccarini e Girolamo Tassinari, ed una lunga serie di testi di argomento locale. In passato, ai manoscritti faentini sono stati uniti veri e propri archivi privati di singoli studiosi, quali Andrea Strocchi, Bartolomeo Righi e Francesco Lanzoni, e nuclei di archivi familiari, come nel caso dei Laderchi e dei Naldi di Bondiolo. Più corposo l’inserimento dei manoscritti provenienti dalla donazione Zauli-Naldi del 1965, che dimostra come la prassi di estrapolare le opere scritte a mano dai volumi a stampa al momento del loro ingresso in Comunale sia proseguita fino a tempi piuttosto recenti.
Alla Raccolta dei manoscritti sono, infine, associate quelle degli autografi denominati “Fondo Biblioteca Comunale”, “Fondo Museo Teatrale” e “Fondo Giuseppe Cantagalli” ed i carteggi personali di diversi intellettuali cittadini, quali Andrea Strocchi, Francesco Zambrini, Emilio Biondi, Piero Zama, Ennio Golfieri, Antonio Corbara. Nonostante si tratti materiale dattiloscritto, non va escluso lo Schedario faentino, risultato dell’eroico lavoro di mons. Giuseppe Rossini (1877-1963), che nei primi decenni del XX secolo lesse tutte le fonti medievali e parte di quelle successive relative a Faenza conosciute al suo tempo, trascrivendole, riassumendole ed indicizzandole in decine di migliaia di schede raggruppate in 41 raccoglitori e 13 cassetti.
L’insieme di questi materiali rappresenta il corpus documentario imprescindibile per qualsiasi ricerca sulla città ed il territorio di Faenza, sotto ogni aspetto ed epoca storica, il luogo privilegiato dove acquisire informazioni certe e talvolta inedite, che confermano come la Biblioteca Manfrediana sia a tutti gli effetti la “Casa” della memoria della nostra Città.
I pezzi esposti costituiscono una selezione fra quelli ritenuti più rappresentativi dell’intera Raccolta, con particolare attenzione a quelli riguardanti la cultura cittadina.
L’essere umano ha iniziato a scrivere all’incirca cinquemila anni fa utilizzando diverse superfici più o meno durature
Dopo aver vergato sul papiro peculiarità della cultura egizia dapprima e di quella greca e romana poi, l’essere umano ha scoperto che la grafia su membrana risultava essere più duratura e essendo questa più opaca permetteva di scrivere su ambo i lati del foglio. Prima di giungere all’aspetto del libro quale conosciamo è stato necessario creare il fascicolo, elemento fondamentale di ogni libro. Se possiamo supporre che la trasformazione dal rotolo di papiro sia avvenuta da uno di questi, che poteva essere lungo anche diversi metri, piegato a fisarmonica, il fascicolo è l’elemento che più di ogni altro ha contribuito alla nascita del codice, antesignano del libro come lo conosciamo. Il fascicolo è ottenuto dall’inserimento uno nell’altro dei fogli piegati al centro della dimensione massima del rettangolo. Non sappiamo perché l’uomo abbia scelto questa forma dopo il rotolo, probabilmente per comodità, infatti il libro, di forma rettangolare poteva essere sfogliato con una sola mano anziché le due necessarie per aprire un rotolo. Il fascicolo poteva essere di un semplice foglio piegato a metà, oppure di due, tre, quattro, cinque da cui il nome di quinterno per qest’ultimo.
Per tenere uniti diversi fascicoli si ricorse ad un sistema di cucitura su di un’unica base di cuoio, rivestendo il tutto con pelle animale. Nel libro che tiene in mano San Lorenzo nell’immagine musiva, presso il mausoleo di Galla Placidia nella vicina Ravenna, è possibile ammirare una di queste prime legature risalenti al IV secolo.
I primi ad adottare il libro nella nuova forma rettangolare furono gli egiziani di religione cristiana copta che nel III – IV secolo per unire i vari opuscoli adottarono una tecnica simile a quella che usavano per cucire sandali o finimenti per cavalli. Cioè un filo di canapa peciato, un filo di canapa ricoperto di pece o cera vergine che con l’uso della lesina era fatto passare attraverso dei fori predisposti nelle assi lignee che sarebbero servite a proteggere il libro. Lo stesso filo andava poi ad unire i fascicoli passando al loro interno, per essere fermato infine sulla faccia interna dell’asse posteriore. Il libro così formato era ricoperto di pelle che era più lunga e larga in modo da proteggere e chiudere in modo saldo il volume, come abbiamo visto nel libro in mano a San Lorenzo o negli altri chiusi nell’armadio sul lato opposto dell’immagine nel mausoleo. La pelle poteva essere ornata dall’impressione di diversi punzoni in metallo che formavano croci o altro di richiamo cristiano. I bizantini copiarono questa tecnica rendendola più semplice e veloce. Dobbiamo ricordare che il libro si diffonde con il Cristianesimo e ne viene aumentata la richiesta. Sostanzialmente nelle legature bizantine vediamo la comparsa di tacche nei fascicoli per facilitare l’ingresso del filo peciato. Un’altra caratteristica dei libri prodotti a Bisanzio è quella di avere un doppio capitello. Il capitello nei libri è quella cucitura di chiusura del dorso nelle parti terminali. I legatori occidentali quando il libro giunse dall’Oriente adottarono la stessa tecnica di cucitura, ma anziché fare i capitelli doppi li fecero semplici, da qui l’identificazione di un vero codice prodotto a Bisanzio o in altre città dell’impero orientale, da un codice prodotto in occidente ad imitazione di quelli orientali come avveniva nella bottega di Aldo Manuzio.
La prima modifica nella cucitura compare in epoca carolingia nell’VIII e IX secolo, quando un anonimo legatore, forse un frate in uno scriptorium , pensò di sostituire la corda peciata con una robusta pelle su cui cucire i vari fascicoli che componevano il libro. La pelle veniva tagliata a metà nel senso della larghezza, solo in corrispondenza del dorso, mentre il resto della linguetta in pelle restava intero. Questo metodo rimase in uso per molti secoli e ne possiamo vedere un esempio nel manoscritto 195 dove osserviamo è un’altra novità, quella di utilizzare per la copertura vecchie pergamene, provenienti da un corale non più in uso, in questo caso in sostituzione della pelle. D’altra parte era nota la resistenza della pergamena e il legatore volendo risparmiare il costo della pelle utilizzò i fogli di un corale ormai superato o che aveva subito danni, infatti la miniatura è datata al XIV secolo. Sempre nella coperta del manoscritto 195 possiamo vedere che il listello di cuoio oltre ad essere utilizzato per i nervi, è poi fissato alla pergamena per uscire da questa e formare i lacci con cui il manoscritto era chiuso.
La legatura, che non è solamente la veste esterna, ma l’insieme delle tecniche di unione dei vari fascicoli che compongono il libro e dei i vari materiali, evolve nel tempo con il mutamento del libro che da manoscritto su pergamena diventa a stampa su carta. Così l’unione dei fascicoli avviene tramite una cucitura su singoli supporti di cuoio, chiamati nervi che non hanno niente a che vedere con parti animali ma così detti perché costituiscono l’ordito di un telaio, che ad imitazione di quelli usati per i tessuti, in uso già dal neolitico, permette di unire i vari fascicoli tramite un filo che forma la trama. La più antica raffigurazione di un telaio per cucire i fascicoli è del XII secolo, ma sicuramente è stato ideato molto prima.
La tecnica carolingia come abbiamo visto dura per svariati secoli e la ritroviamo applicata nella legatura del manoscritto 101 con l’innovazione dell’utilizzo della carta anziché del legno per formare i piatti che proteggevano il libro. In questo caso notiamo che i nervi sono fermati al cartone semplicemente infilandoli nello spessore. Il rivestimento è stato fatto in pelle abbellita da una cornice a filetti in cui successivamente è stato praticato un ritaglio sagomato per inserirvi delle forme in pergamena. E’ anche probabile che sia stata utilizzata una pelle proveniente da altro libro delle stesse dimensioni, sempre nella logica del risparmio.
I Legatori del XV e XVI secolo si resero conto che il libro molte volte veniva apprezzato più per la veste che per il contenuto ed iniziarono ad adornare la pelle di rivestimento con filetti e ferri che, impressi a caldo, creavano particolari disegni come vediamo nel manoscritto 7 Feliciano. Per i principi ed i re le coperture erano decorate con l’interposizione di foglia d’oro fra il punzone ed il cuoio, in modo che l’oro restasse fissato sulla pelle per decorarla.
L’invenzione di Gutenberg riduce il costo dei libri e ne aumenta la produzione. Il ridotto costo è dato da un’altra innovazione, la carta. Gutenberg inizialmente stampa sulla pergamena, ma con i suoi soci si rende conto che il prezzo non si abbassa di molto come invece sarà con l’uso della carta.
Per contenere il costo della legatura, oltre all’utilizzo dei piatti in cartone, come abbiamo già visto, i legatori sostituiscono i nervi di cuoio con corde. Nel XIX secolo la cucitura sarà fatta a macchina e l’abbellimento del libro sarà dato dapprima da una decorazione dei piatti di cartone, poi, come oggi, da una sopracoperta stampata.
In tempi a noi più vicini il libro diventa oggetto anche di restauro, come vediamo nel manoscritto 7 Feliciano, dove la pelle del dorso è completamente diversa da quella che ricopre i piatti forse rifatti ad imitazione degli originali distrutti. Fortunatamente questa tecnica non è più in uso, infatti molto delle legature originali è andato distrutto per una pretesa solidità della nuova legatura.
Il “Bonadies”, conosciuto anche come “Codex Faenza” o “Manoscritto 117” è una delle più antiche raccolte di musica per tastiera esistenti al mondo e contiene variazioni strumentali su modelli polifonici italiani e francesi della fine del XIV – inizi del XV secolo. Il piccolo codice si compone di dieci fascicoli, che rivelano una complessa vicenda, iniziata ancor prima che il carmelitano Iohannes Godendack, italianizzato Bonadies, entrasse in possesso intorno al 1473 a Mantova di alcuni fascicoli parzialmente utilizzati da un copista della fine del Trecento. Al religioso si deve l’ulteriore compilazione del codice, con tre fascicoli dedicati alla musica liturgica e sette a quella profana e a trattati teorici. Vi sono riprese opere di diversi autori, fra cui Johannes de Muris, Johannis Ciconia, Johannes Hothby, Iacobus de Regio e Jacopo da Bologna. Gli approfonditi studi condotti da Pedro Memelsdorff a partire dalla fine degli anni Novanta del Novecento, utilizzando anche tecnologia a raggi ultravioletti, hanno rivelato diverse parti palinseste, consentendo di far luce sui punti controversi ed individuare contenuti sconosciuti. Dopo una riproduzione digitale ad alta definizione, nel 2013 è stata pubblicata a cura della Libreria Musicale Italiana The Codex Faenza 117: instrumental polyphony in late Medieval Italy, ristampa anastatica con un volume di introduzione critica.
I musicologi di tutto il mondo lo conoscono come “Codice Faenza”, ma non si tratta di un manoscritto di origine faentina e si ignora come sia pervenuto alla nostra biblioteca. Bonadies lo portò con sé da Mantova a Reggio Emilia e poi a Ferrara, nel monastero di San Paolo, dove rimase per diversi secoli. Nel XVIII secolo fu studiato da padre Giovanni Battista Martini e successivamente se ne perdettero le tracce, salvo poi essere riproposto da Antonio Cicognani in un saggio apparso sulla Gazzetta musicale di Milano nel 1889 e ricomparire presso la Biblioteca di Faenza. Diverse ipotesi sono state avanzate sull’arrivo in Comunale, ma il restauro del codice negli anni Sessanta ha sicuramente comportato la perdita della legatura e di probabili elementi utili per la soluzione dell’enigma.
Corale cistercense
Durante le soppressioni napoleoniche dei monasteri e conventi cittadini, insieme ai beni librari furono incamerati anche i testi destinati alle celebrazioni liturgiche. Si tratta di volumi da utilizzarsi a seconda della tipologia del rito, antifonari, salteri, lezionali, innari ed altro ancora, composti da parti musicali e/o parti scritte. Quelli destinati al canto corale sono di grandi dimensioni, in modo da potere essere letti da diversi officianti. Il materiale scrittorio è in genere la pergamena e poche furono le edizioni a stampa, probabilmente anche a seguito delle variazioni delle prassi liturgiche musicali dopo il Concilio di Trento, conclusosi nel 1563. La redazione dei libri corali necessitava di ingenti risorse finanziarie, a partire dai costi della pergamena, e richiedeva l’intervento di diversi lavoranti (non sempre tutti disponibili all’interno dei monasteri a titolo gratuito), dai conciatori del pellame, ai preparatori delle pagine, ai copisti, fino ai decoratori ed, eventualmente, di miniatori.
Diversi sono i codici provenienti dal Monastero di Santa Maria Foris Portam di Faenza, che i faentini conoscono come Santa Maria Vecchia, luogo ricchissimo di storia fin dall’epoca bizantina ed officiato dai primi anni del XVI secolo dai monaci cistercensi. Diversi indizi, fra cui la presenza di antichi manoscritti di opere di San Pier Damiani che lì si spense il 22 febbraio 1072, inducono a ritenere il cenobio molto attivo sul piano librario, se non addirittura dotato di un piccolo scriptorium.
Dell’antifonario pergamenaceo quattrocentesco (ms. 770) si conoscono abbastanza bene i passaggi di proprietà grazie alle attestazioni riportate in due colophon separati. Emerge che il testo fu copiato da Palmerio da S. Giorgio, «monachus Casenove», verosimilmente il monastero di S. Maria di Casanova presso Penne (Pescara), al tempo dell’abate Martino. Successivamente giunse al cenobio romano delle Tre Fontane, dove l’abate Michelangelo lo recuperò in cattive condizioni, lo trasferì a Faenza e lo fece restaurare con l’aiuto del monaco fiorentino Vincenzo de Fortunis nel 1536, i cui inserti sono palesemente riconoscibili.
Sono circa un migliaio i frammenti di codici in pergamena di età medievale conservati presso la Biblioteca Manfrediana. Il loro contenuto è prevalentemente liturgico, ma anche giuridico, letterario, scientifico. La prassi di smembrare antichi testi per riutilizzare la pergamena e ricavarne legature, fu di uso generalizzato nei secoli XVI e XVII. La raccolta faentina è quasi totalmente costituita dalle antiche legature dei registri dell’Archivio Notarile che, probabilmente nel corso del XVIII secolo, vennero asportate e sostituite con le attuali in semplice pelle. La divisione di questi frammenti in base alla materia e l’identificazione del loro contenuto fu opera di mons. Giuseppe Rossini nel periodo in cui si dedicava alla redazione del suo monumentale Schedario faentino. Nonostante il lavoro immane questi frammenti, rimangono ancora inesplorati sia per quanto riguarda gli aspetti codicologici, della tradizione del testo e della presenza del paratesto, sia per lo studio delle loro provenienze.
L’ambito disciplinare dei frammenti è in genere già riconoscibile dalla disposizione del testo. Quelli meglio identificabili sono i codici liturgici, per la notazione musicale e per le rubriche rosse (come etimologicamente indica il termine). I giuridici presentano la scrittura ben disposta al centro della pagina, oppure lungo due colonne centrali, circondata dalla glossa del commentatore e sovente anche dalle note aggiuntive del lettore o dei lettori
Si propone un frammento del Decretum Gratiani, nome comune della Concordia discordantium canonum, composta dal monaco Graziano nella quinta decade del XII secolo, che costituisce a tutti gli effetti la prima compilazione di Diritto Canonico, e un frammento del vangelo.
Più esplicativo sul reimpiego dei frammenti di pergamena per farne legature è il ms. 195 Tratato molto utile et necessario per tuti quelli poveri meschini che serà justiciati alla morte utile serà. [Seguitano] alchune belle orationi da dire insieme con li justiciati per amor di Dio. Fu composto nel XVI secolo da «Mattè de missere Emiliano», che lo scrisse «de la sua propria mano e na fatto uno prexente a dietta compagnia», quella di San Giovanni Decollato, detta anche della Morte in quanto deputata all’assistenza ai condannati a morte. Dall’usura che presenta questo piccolo “confortatorio” emerge che fu effettivamente utilizzato durante i lugubri rituali delle esecuzioni capitali in Faenza.
Della raccolta libraria appartenuta alla famiglia Manfredi, che resse la signoria di Faenza quasi ininterrottamente dal 1313 al 1501, si sono da tempo perse le tracce. Grazie agli studi di Anna Rosa Gentilini ora sono meglio conosciuti i nuclei superstiti. A partire dal più importante, costituito dal gruppo di codici riccamente miniati appartenuti a Galeotto Manfredi, oggi alla Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze. Di sicura provenienza manfrediana sono il manoscritto 542 della Biblioteca Trivulziana di Milano e il 226 della Biblioteca Universitaria di Bologna, che attestano l’elevata qualità delle committenze della famiglia.
La Biblioteca di Faenza non conserva codici manfrediani, ma solamente documentazione di tipo archivistico, estrapolata dalle serie d’origine. Si propone qui un atto del 7 gennaio 1343 in cui Francesco Manfredi vende ai nipoti Giovanni di Alberghettino Manfredi e a Giovanni e Guglielmo di Riccardo Manfredi una serie di 62 proprietà. Una cessione anomala che pare piuttosto una donazione, visto che i nipoti erano gli unici eredi di Francesco, che morirà poco dopo e non corrisposero denaro, impegnandosi a farlo successivamente. Il documento, che proviene sicuramente dall’archivio della famiglia Manfredi, risulta sconosciuto a tutti gli studiosi faentini e fu acquistato dalla Biblioteca Comunale nell’ottobre 2001.
Il ms. 99 è un copialettere di missive inviate alla cancelleria di Galeotto Manfredi nel periodo compreso fra il 25 novembre 1477 ed il 21 gennaio 1483. Si tratta un’importante testimonianza dell’attività di governo di Galeotto.
Altro pezzo esposto è la missiva del 6 agosto 1479. Galeotto Manfredi scrive a Niccolò Michelozzi, «camerario» di Lorenzo il Magnifico, perché si adoperi presso il suo signore per fargli avere 25 braccia di raso per il palio che si sta per correre in Faenza, invitandolo a mandare anche i suoi cavalli. La lettera, oltre a testimoniare delle relazioni che i Manfredi intrattenevano con diverse corti della penisola, costituisce una delle rarissime testimonianze coeve alla corsa del palio secondo le antiche consuetudini, codificate nelle rubriche 43 e 44 del libro sesto degli Statuti della Città di Faenza del 1410 e confermate da Gian Galeazzo Manfredi il 31 dicembre 1413.
La Sylloge inscriptionum latinarum veterum è una raccolta di iscrizioni latine attribuita al veronese Felice Feliciano, grande figura di umanista italiano del XV secolo, studioso dell’antiquaria e dell’epigrafia romana. Fu autore, fra l’altro, di un celeberrimo Alphabetum Romanum, conservato presso la Biblioteca Vaticana, che segna la rinascita della scrittura lapidaria romana in età umanistica. Intrattenne relazioni con i più stimati umanisti del periodo e fu in amicizia anche con Andrea Mantegna.
Il manoscritto, di dimensioni assai ridotte, era originariamente composto di 131 carte e riproduce iscrizioni romane provenienti dal Veneto e da altre regioni italiane. Non si sa con certezza come sia giunto a Faenza, anche perché la perdita della legatura originaria e delle prime pagine impedisce il riconoscimento di eventuali dati di appartenenza. Studiato da Augusto Campana, lo definì uno dei prodotti più interessanti dell’attività epigrafica e scrittoria del Feliciano, anche se le ricerche più recenti di Xavier Espluga pongono dubbi sulla sua autografia.
Il De somnio Scipionis, nome col quale è noto il ms. 30, ne occupa solo le prime sette carte. Il restante testo ospita parte de il De natura Deorum, espressione del pensiero filosofico e religioso di Cicerone. Si conosce pochissimo delle vicende e della provenienza di questo codice che è datato, leggendosi al f. 7r «Marci Tulii Ciceronis de Somnio Scipionis finitur libellus feliciter 1434 nonis novembris». Nel 2020 il volume, che versava in pessime condizioni da tempi remoti, è stato recuperato mediante un difficile intervento di restauro.
Il ms. n. 40, della metà del XV secolo, contiene testi attribuiti a Dionigi Areopagita, vescovo greco del I secolo. Il traduttore fu il camaldolese Ambrogio Traversari, uno dei maggiori umanisti italiani del secolo. Nativo di Portico di Romagna, intrattenne rapporti speciali con Faenza e la famiglia Traversari. Il manoscritto proviene dalla biblioteca di San Girolamo. Si tratta del convento degli Osservanti, ora cimitero comunale, che fu uno degli istituti religiosi maggiormente favoriti dai Manfredi, che vi elessero una delle loro sepolture.
Sabba da Castiglione nacque intorno al 1480 a Milano dalla nobile famiglia del cui ramo mantovano proviene il famoso Baldassarre autore de Il Cortegiano. Pur non essendo faentino di origine è una figura iconica per la storia della nostra città. Emise la professione nell’Ordine dei Cavalieri di San Giovanni Battista di Gerusalemme, detti anche di Rodi e poi di Malta, ma era decisamente votato per il collezionismo antiquario e l’erudizione e non per la vita militare a contrastare l’espansione ottomana nel Mediterraneo orientale. Intrattenne rapporti epistolari con numerose personalità del periodo, fra cui Isabella d’Este Gonzaga. Nel 1515 venne destinato alla Commenda di Faenza, dove si stabilì definitivamente nel 1519, rimanendovi fino alla morte avvenuta nel marzo 1554. Durante la sua reggenza la trasformò in un luogo di cultura, agendo come un vero e proprio mecenate e chiamando alcuni fra i maggiori artisti dell’epoca. Convinto sostenitore dell’ortodossia cattolica, volle che rimanesse sempre un luogo di vita spirituale.
L’opera per cui fra Sabba è universalmente conosciuto sono i Ricordi, che Santa Cortesi, curatrice dell’unica edizione moderna nel 1999, definisce «un vero testamento religioso, morale, pedagogico, sostanziato di umana saggezza, di cultura umanistica, di spirito cristiano […]». La medesima osserva come nel periodo compreso fra il 1546 ed il 1613 ne furono pubblicate ben 25 edizioni, rendendolo un vero e proprio best seller dell’età tridentina ed immediatamente successiva. Per collocare il poderoso manoscritto 101 all’interno della complessa vicenda editoriale dei Ricordi si ripropone l’ipotesi della Cortesi, che lo ritiene copia di mano di don Zaccaria Bellenghi (che si sottoscrive il 10 giugno 1553) con numerosi interventi autografi di Sabba e che accoglie aggiunte e correzioni di un manoscritto forlivese alla base della terza edizione, edita postuma nel 1554. La studiosa riporta altresì l’opinione di Claudio Scarpati, secondo cui dal manoscritto 101, in bella forma ma «privo delle tracce di passaggio per la stamperia, sia stata tratta una copia perduta su cui sarebbe stata esemplata l’edizione apparsa dopo la morte di Sabba».
Lo stesso compose anche una ricca biblioteca, dissolta subito dopo la sua morte, di cui si sono pervenuti alcuni inventari non relativi alla dotazione primitiva. Alcuni dei volumi superstiti sono oggi conservati in Manfrediana.
Anche se la biblioteca e la gran parte delle opere d’arte appartenute a Fra Sabba si dispersero alla sua morte, la Commenda faentina mantenne una cospicua dotazione patrimoniale e fondiaria fino alla soppressione in età napoleonica. Tale ricchezza è bene documentata dal Cabreo di tutti li beni della venerabile comenda della sacra Religione Gerosolimitana, eretta nella città di Faenza sotto il titolo di S. M. Maddalena, fatto d’ordine di S. E. il sign. Comendatore Fr. Antonio Grassi, patrizio romano, l’anno 1786 (ms. n. 111), l’unico registro proveniente dall’archivio conventuale in possesso della Biblioteca Manfrediana.
Con il termine Cabreo si indica un inventario dei beni posseduti dagli enti ecclesiastici e delle famiglie aristocratiche. Non esiste una tipologia precisa anche se in genere erano divisi in una sezione descrittiva ed una “planimetrica”, in cui i beni terrieri venivano riprodotti fedelmente riportando talvolta le singole specialità coltivate, le servitù ed i confini. Quest’ultima parte contiene talvolta tavole di grande bellezza e suggestione e costituisce una fonte primaria non solo per la ricomposizione del patrimonio dell’ente proprietario, ma anche per riconoscere la geomorfologia territoriale in una epoca specifica e pure per studiare la professione agrimensoria nei secoli scorsi e le unità di misura. Gli inventari dei beni terrieri risalgono ancora al Medioevo, ma quelli illustrati sono tipici dei secoli XVII-XVIII.
L’esemplare proposto è datato 1786 e come tale è da ritenersi pienamente indicativo della ricchezza patrimoniale della Commenda faentina al tempo della soppressione napoleonica.
La Raccolta dei manoscritti della Manfrediana, come pure di tante altre biblioteche di ente locale, è ricchissima di materiali che a diverso titolo contribuiscono allo studio storico del territorio di riferimento. Si propongono qui due tipologie documentarie ben diverse, ma che entrambe permettono una conoscenza dei nostri luoghi, in particolare riferimento al fiume Lamone, che nel 2023 ha “scritto” una nuova pagina del suo millenario rapporto con la nostra città.
Il regime delle acque e il controllo dell’alveo del fiume Lamone è stata costante preoccupazione delle autorità cittadine fin dal Medioevo. Diversi sono i progetti conosciuti, fra cui quelli di Carlo Cesare Scaletta, deceduto dopo il 1726, di cui si espone il miscellaneo [Lettere, documenti, progetti e calcoli].
Le fonti più ricche per la storia del territorio rimangono le cronache, in quanto redatte di prima mano ed in contemporanea agli accadimenti. Esse raccontano non solo la vita politica e religiosa del momento e certi fatti che a noi oggi paiono frivoli od inutili, ma anche tutte le calamità naturali, quali terremoti, carestie, epidemie ed inondazioni, di cui Faenza ha purtroppo fatto esperienza negli ultimi tempi.
In esposizione le Memorie di alcuni fatti in Urbe Faventiae, cronaca di Luigi Cavalli in cui annotò con taglio giornalistico gli eventi cittadini dal 1740 al 1855. La pagina proposta descrive la «Grande innondazione del fiume» del settembre 1842.
L’egittologo faentino Francesco Salvolini, (1809-1838) studiò nel Seminario di Faenza e nel 1826 frequentò l’Università di Bologna dove, oltre ad approfondire lo studio delle lingue sanscrita e copta, si appassionò alla scrittura geroglifica. Nel 1830 decise di trasferirsi a Parigi e di frequentare i corsi tenuti al Collège de France da Jean-François Champollion (1790-1832) che da meno di dieci anni, dal 1822, era riuscito a decifrare dopo circa 1500 anni di oblio era riuscito a decifrare i geroglifici.
Tra il 1832 e il 1837 Salvolini riuscì a pubblicare in francese 7 articoli e 5 libri sull’interpretazione dei geroglifici: tali opere lo condussero ad essere considerato uno dei migliori allievi di Champollion.
Dopo la sua scomparsa nel 1838, i suoi manoscritti furono donati e venduti dagli eredi alla Biblioteca Comunale di Faenza, al Museo Egizio di Torino e alla Bibliothèque Nationale di Parigi. A causa delle accuse di furto e di plagio intentate, dopo la morte del faentino, nei suoi confronti dal fratello maggiore di Champollion, il suo nome fu screditato.
Negli ultimi anni alcuni studi hanno evidenziato qualche dubbio su queste accuse, un riesame di tutta la sua documentazione è in atto su più fronti.
La confidenza di Salvolini con Champollion, gli permise di avere accesso ad alcuni suoi manoscritti, studi giovanili effettuati sulle scritture e le lingue antico-mediorientali. Dopo la morte di Champollion alcuni di questi autografi rimasero, per svariati motivi, nelle mani del suo giovane allievo faentino; questo rapporto maestro scolaro ha consentito a tali manoscritti di entrare, in più tranches, a far parte della biblioteca Manfrediana dalla metà del 1800. L’ultimo reperto entrò nell’istituzione faentina nel primo quarto del 1900.
La Biblioteca Comunale di Faenza conserva, tra le Carte Salvolini, più di 300 autografi che appartennero a J.-F. Champollion dei quali, almeno 270 sono stati redatti dalla sua mano: il Fondo Champollion (nome di comodo assegnato a tali documenti per differenziarlo da quelli appartenuti a Francesco Salvolini) di Faenza risulta essere, e non di poco, il più cospicuo corpus di autografi dello studioso francese conservato fuori della Francia.
Il fondo dei manoscritti conserva anche scritti del XX secolo, compresi cronache o diari relativi alle vicende storiche della Città. Il ms. 390 Appunti di cronaca di Faenza e dintorni dall’8 settembre 1943 al 29 giugno 1945 – Seconda Guerra mondiale Faenza è un diario scritto dal medico Giovanni Collina Graziani. Nella premessa l’Autore scrive: “il tempo che attende la vita faentina, lungo o breve che possa essere, ma certamente carico di eventi straordinari e purtroppo dolorosamente crudi e densi d’incognite, mi spinge a redigere questi appunti di cronaca… non vi verserò nulla di personale, bensì solo fatti… che cercherò di registrare con fedele scrupolo della verità, senza condizionamenti e bavagli di censure a cui la pubblica informazione ufficiale ci ha abituati”. L’intento morale è alto, riportare i fatti così come vissuti.
Qui la Liberazione di Faenza:
“17 dicembre (1944), la città è in mani inglesi. Esultanza ancora timida dei faentini per le vie della città. Alcuni sfollati giungono dalla campagna ad abbracciare parenti scampati nelle cantine… il possesso di Faenza da parte alleata è un fatto compiuto”
“29 aprile (1945) giornata con sorriso primaverile in terra e nei cuori si presume che arrivi la fine di questa immane guerra”
Un altro manoscritto in mostra è il ms. 700 di Edward Prime, giornalista, critico musicale e il primo scrittore statunitense a pubblicare un romanzo apertamente omosessuale.
Désiré: a portrait and a happening è un testo biografico, probabilmente in parte romanzato, che descrive la vita e, soprattutto, la personalità di Désiré, pseudonimo forse dell’artista svizzero (Gerard Vuerchoz) con il quale l’autore ebbe un rapporto affettivo e la cui foto e alcuni articoli di giornale a lui dedicati si trovano tra le carte a noi pervenute. Il romanzo è diviso in tre parti, nella prima si racconta l’infanzia di Désiré, nella seconda avviene l’incontro tra l’autore e il giovane ed infine nella terza si parla della loro vita insieme in Inghilterra.
Il manoscritto n. 700 circolò solo nella ristretta cerchia amicale dell’autore che visse tra Italia, Svizzera e Francia. È un vero e proprio tesoro per gli studiosi di narrativa inglese, si tratta infatti di un autografo inedito esposto qui per la prima volta. Accompagna il romanzo anche il testo in francese “Quelques lettres de Désiré”, corrispondenza private dell’Autore con lo scultore svizzero, anch’esso inedito. Infine una lettera di Stevenson racconta la vicenda dei testi che da Losanna viaggiarono fino ad arrivare a noi, l’ultima data riportata è il 1938.
Tutto il materiale è giunto in Biblioteca tramite la donazione di Pietro Montuschi, proprietario del Grand Hotel Minerva di Firenze dove Stevenson soggiornò spesso. L’albergo, tuttora esistente, era frequentato da molti turisti e viaggiatori stranieri che vi abitavano e potevano usufruire di una piccola biblioteca in lingua inglese, oggi conservata nel fondo Montuschi in Manfrediana.